I nuovi postulati della relatività ristretta introducono il concetto di velocità assoluta (quella della luce): questo concetto è assolutamente estraneo alla meccanica Newtoniana (che aveva invece il concetto di accelerazione assoluta, per sistemi di riferimento in moto relativo rettilineo ed uniforme). É chiaro che l'introduzione di questo concetto dovrà produrre una radicale revisione delle nostre idee di spazio e di tempo, revisione già contenuta nelle trasformazioni di Lorentz, ma che si può capire ancora più a fondo se si esamina il cosiddetto orologio a luce.
Un orologio a luce può essere pensato come un dispositivo
costituito da una sorgente A che manda un segnale luminoso verso
l'alto, dove, a distanza λ, c'é uno
specchio che riflette la luce verso il basso nel punto B,
facendola ritornare in A. Nello stesso posto della sorgente
c'é anche un rivelatore che vede il segnale riflesso,
lo registra, e invia un nuovo segnale verso B. Ogni volta che il
segnale ritorna in A viene emesso un ticchettio che rappresenta
l'unità di tempo segnata dal nostro orologio. Un
orologio simile è forse difficilmente realizzabile, ma
ciò poco conta per i nostri scopi.. L'intervallo di
tempo "base" del nostro orologio a luce sarà,
dunque, il tempo impiegato dalla luce per andare da A a B e
ritornare in A: lo indicheremo con Δτ e lo
chiameremo tempo proprio
dell'orologio. Il tempo Δτ dipende esclusivamente
dalla distanza sorgente-specchio e vale .
Immaginiamo ora che il nostro orologio sia in moto rispetto a noi, con una certa velocità v, "verso destra", e vediamo come ci appariranno le cose. Intanto dobbiamo osservare che, sulla base delle trasformazioni di Lorentz, la distanza λ tra sorgente e specchio non sarà modificata (in quanto le direzioni, y e z, perpendicolari alla velocità non sono influenzate dalle trasformazioni stesse). A questa stessa conclusione si sarebbe potuti anche arrivare direttamente sulla base dei postulati della relatività.
Se indichiamo con Δx la distanza percorsa
dall'orologio mentre il segnale luminoso va da A a B e
ritorno, con Δt il tempo segnato dall'orologio del
nostro laboratorio, e se teniamo conto che la luce viaggia
sempre a velocità c, come prima, applicando il
teorema di Pitagora al triangolo
A1B2A2, otterremo: . Da qui si può ricavare
Δt e, ricordando il valore trovato per Δτ, si
ottiene la formula seguente:
. Questa famosa formula è nota come
formula per la dilatazione dei tempi
negli orologi in moto. Questo nome, forse più
di effetto che di sostanza, è legato al fatto che da
questa formula si deduce che se noi leggiamo, sul quadrante del
nostro orologio nel laboratorio, l'intervallo di tempo che
intercorre tra la partenza e il ritorno del segnale luminoso
dell'orologio a luce, questo tempo (Δt) sarà
più grande di quello (Δτ) segnato sul quadrante
dell'orologio a luce: è come se, dal nostro punto di
vista l'orologio in moto avesse rallentato. Non
c'è nulla di strano o di misterioso in questo, tutto
è legato al fatto che l'evidenza sperimentale ci
ha costretto ad ammettere che la velocità della luce
è uguale sia che la misuriamo dal punto di vista
dell'orologio a luce, sia che la misuriamo dal punto di
vista del laboratorio, nel quale l'orologio che emette e
riceve il raggio di luce è in movimento. É
chiaro che questo fatto non è facile da digerire, ma non
c'è nulla da fare, visto che tutti gli esperimenti lo
confermano con precisione praticamente assoluta.
Ci si potrebbe chiedere perché nessuno ci ha mai pensato
prima di Einstein, o comunque prima della fine del secolo
scorso: il motivo è certamente da ricondurre al fatto
che, nella pratica della nostra vita quotidiana , anche di
sperimentatori nei laboratori scientifici, il fattore di
correzione che rende il valore di Δτ diverso da
quello di Δt è , cioè un valore estremamente piccolo, per
velocità ordinarie. Come è noto, un tale fattore di conversione è invece
implicito nel concetto di magnetismo, anche se, all'origine,
i fisici non si potevano rendere conto di questo fatto.
Supponiamo ora che il nostro orologio a luce si muova con una
velocità v parallela al tratto AB. Con le stesse
notazioni di prima, sul quadrante dell'orologio a luce
troveremo lo stesso identico risultato: . Consideriamo ora la situazione che vede un
osservatore nel laboratorio, rispetto al quale l'orologio
è in moto verso destra con velocità v.
Nella figura qui sopra abbiamo rappresentato, dopo
l'immagine dell'orologio a luce nel suo riferimento, tre
successive posizioni dell'orologio a luce viste dal sistema
del laboratorio (emissione del segnale, riflessione sullo
specchio, ritorno alla sorgente) un po' sfalsate, per
rendere più leggibile il disegno. Il lampo emesso dalla
sorgente si riflette sullo specchio dopo aver percorso il tratto
A1B2 e ritorna alla sorgente dopo aver
percorso il tratto B2A3. Indichiamo con
l la lunghezza dell'orologio misurata
dall'osservatore solidale al laboratorio (che non sappiamo
se sarà uguale a λ oppure no), con
Δt1 il tempo di "andata", con
Δt2 quello di "ritorno". Per trovare
questi due tempi basterà che teniamo conto che, mentre il
segnale viaggia, A e B si spostano, per effetto della
velocità v. Si ha, facilmente, . Da qui si possono ricavare i valori dei
due intervalli di tempo che, sommati, danno il valore di
Δt:
.
Basterà ora ricordare il già trovato legame tra
Δτ e Δt per ricavare la seguente formula:
.
Questa formula è detta formula per la contrazione delle lunghezze di Lorentz-Fitzgerald, perché essa implica che la lunghezza l è più piccola della lunghezza λ. La contrazione delle lunghezze è perfettamente simmetrica alla dilatazione dei tempi e la cosa si può ben vedere nell'esperimento sui muoni usati come orologi.
É da segnalare che queste formule hanno avuto una notevole importanza storica e sono, ancora oggi, normalmente presentate come due dei risultati chiave della teoria della relatività. In realtà, senza negare la loro importanza e il fatto che i concetti che esse esprimono sono, forse, due dei concetti più difficili da digerire e per questo più affascinanti soprattutto per i non addetti ai lavori, si potrebbe tranquillamente parlare di relatività senza mai parlare di dilatazione dei tempi e di contrazione delle lunghezze.
Molto più importante è il discorso che segue.
Riprendiamo in considerazione una formula che ci è
servita per ricavare la legge di dilatazione dei tempi: . Se scriviamo Δx al posto
di VΔt (si tratta dello spostamento subito
dall'orologio a luce nel laboratorio) e
al posto di λ, e ricaviamo
Δτ, otteniamo:
. Se considerassimo il moto dello stesso orologio
con una diversa velocità, v', troveremmo
diversi valori per Δx e Δt (rispettivamente
Δx1 e Δt1), ma si avrebbe
sempre
, ovvero
. Quadrando, riordinando e riducendo allo
stesso denominatore si può ottenere la seguente
conclusione fondamentale:
. Questa formula esprime il fatto che mentre la
lunghezza e il tempo, per proprio conto, dipendono dal
riferimento, la combinazione
è indipendente dal riferimento,
cioè è un invariante. In relatività non si
può parlare separatamente di spazio e di tempo, occorre
parlare di spaziotempo.
Questo fatto è strano solo ad un'analisi
superficiale, in realtà in geometria un fatto analogo
è ben noto: se si considerano, in un piano, due diversi
riferimenti cartesiani ortogonali e due punti A e B di
coordinate (xA,yA),
(xB,yB) e (XA,YA) ,
(XB,YB) nei due riferimenti, la loro
distanza non dipende dal sistema di coordinate, ma il calcolo
della distanza usando le coordinate cartesiane è diverso
nei due riferimenti: . Questa formula esprime il fatto che la distanza
è un invariante, mentre la differenza di ascisse e di
ordinate non lo è. Tra questo invariante e quello della
relatività ci sono due differenze: la presenza di
c2 (ma questa è una questione secondaria
dipendente solo dalle unità di misura), e la presenza del
segno meno davanti a c2Δt2.
Nonostante questo fatto la similitudine tra le due formule
è così forte che essa ha dato origine a una
trattazione "geometrica" della teoria della
relatività (iniziata da Minkowski in un articolo del
1908).
L'idea che la relatività possa essere "ridotta" ad una sorta di teoria geometrica dello spazio tempo è di grande importanza e può, almeno entro certi limiti, essere considerata l'idea che sta alla base della teoria della relatività generale e di tutte le teorie di campo unificato che si sono succedute dopo la nascita della relatività generale.